sabato 19 aprile 2025

Un libro per non morire



C’è un editore, da qualche parte in provincia, che stampa ancora libri. Non solo eBook. Non podcast da sfogliare con le orecchie. Libri veri. Con le pagine, la carta, l’odore di colla stanca e il fruscio pudico delle cose che non vogliono morire. La sua email è colma dei manoscritti non letti, ricevuti da autori sconosciuti ma convinti di avere risolto il senso della vita in 112 pagine. Q

Quando piove l’editore guarda fuori dalla finestra e si chiede se era davvero meglio aprire una pasticceria come gli diceva sua madre. Con i bignè, almeno, la gente ancora ci va. Con i libri, bisogna inseguire la gente sui social e invocare gli algoritmi, come venditori ambulanti nel metaverso. Le fiere locali sono il suo Vietnam. Tende bianche, tavoli pieghevoli, gente che passa distratta con un cono gelato in mano e chiede: “Ce l’ha qualcosa tipo Ken Follet, ma più corto?” 

Ogni volta che qualcuno gli propone di “fare qualcosa su Instagram”, lui sente un piccolo infarto battere alla porta. L’unico reel che sa fare è quello che accidentalmente parte dal suo smartphone. L’editore locale è un uomo che resiste. Come una cabina telefonica, come un cinema parrocchiale, come la dignità: in via d’estinzione, ma ancora in piedi. Anche se traballa. Eppure continua. 

Pubblica le storie su Girgenti, saggi sul cinema, storie ispirati a fatti avvenuti. Pubblica perché crede che la cultura abbia un valore. Che un libro cambi qualcosa. Che leggere non sia solo un’attività da praticare in bagno con lo smartphone in mano. 

Un giorno, forse, qualcuno farà un documentario su di lui. Lo troveranno nel suo ufficio con un occhio agli scaffali piegati dagli scatoloni pieni di romanzi e uno sulle bozze delle nuove uscite, mentre fuori il mondo legge le didascalie su TikTok. Nel frattempo, se lo incontrate, non ditegli “oggi nessuno legge più”. 

Piuttosto comprate un libro. Qualsiasi. Un libro di carta. Come gesto di solidarietà. O di nostalgia. O semplicemente per non lasciare morire un’idea: che leggere, oltre a tutto, sia ancora un modo elegante per resistere.

mercoledì 9 aprile 2025

Undici stagioni e un fischietto: confessioni di un'idiota da parquet

 


 

Undici stagioni. Non di una serie TV.  Di partite vere, vissute, sudate sugli spalti con l’occhio strizzato, le ginocchia accavallate e la mascella serrata nello sforzo di capire. Undici stagioni di basket per non capire, alla fine, assolutamente niente.

Era il 2014 quando Vito mi trascinò alla mia prima partita della Fortitudo. Mi aveva detto: “Vedrai, è bellissimo. Velocità, strategia, intensità, rispetto delle regole”. Trovai dieci tizi (tutti sopra il metro e novanta) che si inseguono in mutande urlandosi addosso mentre un gruppo di tre arbitri fischia a caso, con l’espressione ieratica di chi ha appena visto la Madonna.

La prima volta fu uno shock. Abituata al calcio in TV, dove vedi due o tre gol a partita, se va bene, mi ritrovai in un tripudio di canestri, contropiedi, urla e musica da discoteca. Ogni due secondi qualcuno faceva canestro. Ogni tre, qualcuno fischiava. Il pubblico non sta mai zitto: applaude, insulta, canta, bestemmia, ride, piange.

Ma poi arriva il momento chiave. Il fischio. Il famoso, temuto, inspiegabile fischio. Gli arbitri, entità sovrannaturali armate di cinismo, interrompono il gioco. Fischiano.

Il mistero non è il perché abbiano fischiato. Il mistero è per chi. A favore o contro? Il fallo lo ha subito l’omone vestito di bianco o quello vestito di blu? È colpa sua o gliel’hanno fatta? E soprattutto: perché la sua faccia non esprime né colpa né innocenza, ma solo un vago disprezzo esistenziale?

Per capire, io mi affido all’unico oracolo rimasto: il volto del tifoso. Guardo la curva. Se è incazzata, il fischio è contro. Se esulta allora è a favore. In pratica, seguo la partita leggendo le espressioni. Il gioco lo capirò mai? No. Ma il linguaggio universale dello sdegno è chiaro come il sole a mezzogiorno.

Una volta ho persino chiesto a Vito: “Perché hanno fischiato adesso?”. Mi ha guardata con commiserazione, poi ha pronunciato la frase che chiude ogni spiraglio di dialogo tra i sapiens e i Neandertal dello sport:

“Eh, ma quelli erano passi.”

Passi? Dove? Perché? Chi li ha fatti? E quanti erano?

Dopo undici stagioni, ogni volta che vado al palazzetto mi sento spaesata, bombardata da suoni, ma perfettamente felice di esserci pur non capendo nulla.

Un libro per non morire

C’è un editore, da qualche parte in provincia, che stampa ancora libri. Non solo eBook. Non podcast da sfogliare con le orecchie. Libri veri...