“Ready player one”, per la regia
di Steven Spielberg, nelle sale cinematografiche in questi giorni, tratto dal
romanzo dello statunitense Ernest Cline “Player one” del 2010, è la nuova
versione della trasposizione del concetto di “realtà virtuale” al cinema.
Ci
voleva l’arguto romanzo di Cline, intriso di cultura pop anni ’80 e ’90, con la
mano appassionata e sapiente di Spielberg, per arrivare alla consapevolezza più
realistica riguardo questo argomento: cioè che la realtà virtuale è
meravigliosamente quanto insidiosamente vicina.
L’ipotesi di un soppiantamento
della realtà che viviamo con una virtuale, è resa plausibilmente realistica da
una cosa che di realistico non possiede nulla: il videogioco. Un metodo di
intrattenimento che ha assunto varie forme legate al progresso degli strumenti
e dei supporti per usufruirne, ma che alle sue fondamenta conserva il cinico
radicamento umano dell’insoddisfazione. L’uomo non è mai soddisfatto, desidera
sempre il di più, il diverso, e crea quindi una realtà in cui può entrarne in
possesso, e andare avanti in questa escalation.
Il videogioco. Questa parola che, ormai ricollegata esclusivamente
alle console iper-avveneristiche o alla portabilità dei giochi direttamente
sugli smart phone, fino a qualche anno fa significava ancora “giocare insieme”.
Ora è il mezzo più adatto per
l’ingresso in una realtà virtuale.
Il film di Spielberg ci mostra le
più avanzate tecnologie per videogames attualmente in commercio, o in
sperimentazione. Niente più joystick, console e altri obsoleti oggetti. Ora il
videogioco siamo noi. Il videogioco è parte integrante dell’individuo, ne
determina la sagoma e le estremità. La fantasia dei ragazzini, che rappresenta
la capacità del cervello di elaborare anche ciò che non vede e di rafforzare la
sfera del ragionamento, è soppressa dalla mancanza di limiti in ciò che si può
vedere. Il videogioco moderno ha raggiunto la possibilità di condivisione, di
elaborazione tattile, di cognizione sensitiva a 360°.
La cosa che rende realistico
questo scenario, è la possibilità e il mantenimento del controllo.
Niente utopistiche congetture
sulla supremazia delle “macchine”, al contrario l’uomo detiene sempre il
controllo e la scelta di entrare o uscire dalla realtà virtuale, in relazione
ovviamente a quanto ne è assuefatto. Altrettanto realistiche sono quindi le
ipotesi sul cambiamento nelle metodologie di connessione sociale. Le persone
interagiscono con altri individui mostrandosi nella forma a loro più
congeniale, fanno amicizia, si innamorano, pur non essendosi mai incontrate
nella realtà.
Un’immensa espansione del
concetto di social network. Ma in questo caso ci viene mostrata un risvolto
futuro molto realistico e, soprattutto, quasi inevitabile.
Le interazioni sociali sono la
base della costruzione di una società civile. Ma se cambiano i dettami e i
metodi di interazione, cosa potrebbe accadere?
Il buonismo imperante nel romanzo
e nel film sopra citato, spezza la ventata di realismo (paradossalmente un
concetto instillato da un film incentrato su una realtà “irreale”) ma dovremmo
porci interrogativi che ci facciano comprendere fino a che punto gli individui
possono controllare se stessi all’interno di una realtà in cui tutto è permesso.
Ovviamente il problema nasce solo nel momento in cui ciò che succede nella
realtà virtuale si ripercuote nella realtà che viviamo, fino a quel momento,
largo al divertimento e al puro intrattenimento, largo alla realtà virtuale
considerata solo come un gioco, un gioco che in poco tempo potrebbe evolversi
in un’ambizione più grande.
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